Il colore: crocevia fra tecnica, economia, scienza, percezione, memoria e convenzione

Invito all’avvincente lettura di Riccardo Falcinelli, Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Torino, Einaudi, 2017


Fedele alla sua impostazione teorica, in Colorama Riccardo Falcinelli ci guida alla presa di consapevolezza della dimensione contestuale del nostro sguardo sul colore e della nostra idea di colore. Leggendo Colorama scopriamo che il contesto è un complesso intreccio tra funzionamento di vista e cervello, esperienza e memoria, sviluppi della scienza e delle tecniche di produzione, riproduzione e distribuzione, economia e convenzioni socio-culturali. In sintesi: il colore è determinato, biologicamente e storicamente.

Riprendendo il pensiero di Giambattista Vico, che affermava che possiamo conoscere solo ciò di cui siamo facitori, ovvero ciò di cui abbiamo costruito la meccanica di funzionamento, Falcinelli propone – fra gli altri – un interessante percorso di lettura incentrato sugli sviluppi della scienza e delle tecniche produttive, che ci porta a conoscere tre possibili approcci al colore: oggettivante, astratto e relazionale.

Per esemplificare l’approccio oggettivante, Falcinelli ci riporta indietro nel tempo, nel mondo premoderno in cui ogni colore è ricavato da una sostanza che appartiene a un dato regno della natura, che è presente, più o meno abbondantemente, in una data area geografica e che è idoneo a colorare dati oggetti con l’impiego di tecniche più o meno complesse.

Questi dati di fatto portano i contemporanei a considerare il colore come consustanziale a un dato oggetto, ad attribuire a ogni colore un valore economico e quindi a incasellarlo in una scala gerarchica.

Il blu oltremare, per esempio, è indissolubilmente legato alla polvere del lapislazzulo, che giunge a Venezia lungo la Via della Seta, da al di là del mare. Materia prima, logistica di trasporto, tecniche di produzione rendono preziosa la polvere e il colore che ne deriva.

Nel racconto di Falcinelli, nelle immagini sacre del Quattrocento – commissionati da mercanti e banchieri – la rappresentazione delle distinzioni teologiche incorpora le differenze di costo dei colori. Concretamente, per dare sfoggio della loro ricchezza, i committenti pretesero che il mantello della Madonna non fosse più colorato di nero, ma dello sfolgorante blu oltremare che ancora oggi colleghiamo “naturalmente” al mantello di Maria.

Avere un approccio astratto al colore significa considerarlo non tutt’uno con un oggetto specifico, ma come una caratteristica che può essere condivisa da un insieme di oggetti della nostra osservazione.

Già Aristotele indaga la natura fisica del colore, definendolo una proprietà degli oggetti osservati legata alla quantità di luce che riflettono e costruendo una scala di sette colori, di pari grado, che vanno dal buio alla luce.

Se per Aristotele il colore rimane comunque una caratteristica degli oggetti, Newton scinde definitivamente questi due elementi, quando nel 1672 scompone la luce in una sfumatura continua. In base agli esperimenti e alle conseguenti teorizzazioni scientifiche, per Newton il colore sta nella luce; il numero dei colori è indefinito; non vi è gerarchia fra i colori; il colore non è portatore di valori simbolici… anche se la ruota cromatica con cui rappresenta lo spettro diventerà una strumento molto usato per ragionare sulle relazioni fra i colori e sul significato che tali relazioni hanno per noi.

Per quanto riguarda la de-gerarchizzazione dei colori, sarà solo nell’Ottocento, con l’invenzione dei pigmenti sintetici a permetterne il passaggio dalla teoria alla pratica.

Su questo tema Falcinelli racconta l’affascinante storia del chimico William Henry Perkin che nel XIX secolo inventa il primo colorante sintetico della storia, la mauveina, il colore malva. Non si tratta di un pigmento per l’arte, ma di un colorante per tessuti, che rende economico, prevedibile e “pulito” il processo di tintura, aprendo le porte al mondo della moda e alla necessità di costruire una platea dotata della volontà e della capacità di definire la propria identità in base alla visione, alla narrazione condivisa e all’acquisto di oggetti proposti da sistemi organizzati. Con il vestito malva sfoggiato della regina Vittoria di Inghilterra in un’occasione ufficiale questo meccanismo funzionò già alla perfezione: il nuovo colore fu largamente copiato dalle borghesi dell’epoca per l’abbigliamento e l’arredamento. La regina Vittoria? Una vera influencer!

Newton indaga scientificamente sulle cause del colore, ma non spiega l’effetto che il colore ha sulle persone. Goethe, in epoca romantica, e le attuali neuroscienze hanno invece un approccio relazionale al colore, indagando il rapporto fra l’oggetto colorato e l’organismo che lo percepisce e, nel caso dell’essere umano, lo nomina.

L’elaborazione delle sue esperienze porta Goethe a descrivere l’esistenza di tinte postume e di tinte complementari, che, al momento dell’osservazione, non sono proprie dell’oggetto osservato, ma prodotte dalla e nella mente dell’osservatore.

Le neuroscienze confermano l’intuizione di Goethe su relazionalità e relatività del colore: il colore è una costruzione che avviene nella nostra mente a partire da dati fisici; ogni organismo elabora i dati fisici in modo proprio; prima che al colore, la nostra mente è sensibile al movimento, alla luminosità, agli scarti visivi e quindi alla relazione fra colori contestuali; la sensibilità a questi fattori è funzionale alla nostra capacità di interpret-azione del e nel mondo (e quindi di sopravvivenza).

Il design cromatico sottende questo approccio relazionale e relativistico: compito del designer è progettare il colore in modo tale che l’osservatore lo veda così come desidera il progettista; il colore va disegnato in funzione della relazione fra oggetto e soggetto percipiente, e dei meccanismi di costruzione cromatica della e nella sua mente. Il design cromatico assolve quindi a un’importante funzione narrativa, di guida dell’osservatore alla corretta interpret-azione dell’oggetto.

Oltre a questo percorso di lettura, Colorama è ricchissimo di altri spunti interessanti.

Per esempio: per noi è “naturale” pensare ai colori come mescolabili.

Ma, al di là del Medioevo in cui era addirittura illegale mescolare i colori, i colori naturali sono in Sè poco mescolabili, data la loro origine eterogenea.

Solo nel Quattrocento, quando a partire da Venezia si diffondono i colori pittorici a olio, i colori iniziano a lasciarsi mescolare in modo prevedibile, un’evoluzione che si completa poi con l’avvento dei pigmenti sintetici.

Poter mescolare i colori significa anche poter partire da alcuni colori, primari, per realizzarne altri. L’applicazione pratica di questa intuizione arriva fino a noi, per esempio sotto forma della stampa in quadricromia, figlia delle invenzioni settecentesche di Jacob-Christof Le Blon e Alois Senefelder mirate a sovrastampare due colori per produrne un terzo, risparmiando materia prima e complessità produttiva.

Falcinelli ci fa riflettere anche su un altro aspetto che ci sembra “naturale”: la tinta unita.

In natura e come risultato del gesto umano, la discontinuità del colore è la norma.

La tinta unità è una novità moderna, resa possibile dai pigmenti sintetici, ma causata anche dalla serializzazione dei processi produttivi: per le macchine è più facile ed economico applicare una tinta unita.

L’industria trasforma la tinta unita da eccezione a norma: solo in questa prospettiva, racconta Falcinelli, acquista senso il gesto di Warhol di rifare a mano determinati prodotti industriali, per restituirli come pezzi unici, dal fascino inatteso, introducendo discontinuità cromatiche intenzionali, squisitamente pittoriche.

Colore discontinuo e tinta unita allenano anche a un diverso tipo di sguardo: lento il primo, rapida e a colpo d’occhio la seconda.

Se in Colorama il richiamo alla determinatezza storica, alle tecniche di produzione e ai mezzi di distribuzione (digitali in particolare) gioca un ruolo importante nella costruzione dei percorsi di lettura, è altrettanto chiaro il ruolo che Falcinelli attribuisce all’esperienza, alla memoria e al contesto nella percezione e nominazione del colore, nonché nell’attribuzione di senso a esso.

Per poter essere nominato, il colore va esperito. Se il nostro interlocutore non ha mai visto il colore a cui ci riferiamo, né ha mai visto oggetti di colore simile a cui potremmo riferirci con un paragone, il gesto ostensivo diventa indispensabile per intenderci: noi dobbiamo mostrargli un oggetto campione e lui deve guardarlo, almeno una volta.

La nominazione del colore, però, non ha a che fare solo con l’esperienza e con la memoria, ma anche con l’uso che se ne fa in un determinato contesto socio-culturale. Partendo dal presupposto che il colore percepito è un continuum, mentre il nome del colore ne identifica un segmento discreto, battezzare un colore e utilizzarne poi effettivamente il nome avviene solo se quel colore è da noi tecnicamente riproducibile e se lo usiamo effettivamente in quanto produttori, osservatori o consumatori.

Anche il significato dei colori – per esempio il verde del semaforo o la sinestesia fra rosso e dolcezza – non è tanto “naturale”, quanto guidato dal contesto, dall’esperienza e dalla memoria.

Che la giurisprudenza parli di uguaglianza fra due colori solo in relazione a una luce standardizzata e che ammetta la brevettabilità non del colore, ma di specifiche procedure tecniche, ci indica che oggi il colore è concepito come sensazione, non come cosa. Eppure, nel capitolo finale di Colorama, come anche in Figure, Falcinelli ci fa riflettere sul fatto che la riproduzione e la distribuzione digitale delle immagini, elidendo gli aspetti materici degli artefatti fisici realizzati nelle varie epoche (dimensioni, origine e tipo di colore, tecnica pittorica, destinazione e contesto della fruizione, ecc.), in cambio della portabilità ci priva di una ricca fonte di esperienza e di informazioni.

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