Invito alla lettura di Riccardo Falcinelli “Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram”

Senza che ne siamo necessariamente consapevoli, le caratteristiche formali delle immagini guidano le nostre azioni, il nostro sguardo e il processo di elaborazione della “nostra” storia basata sulla percezione dei contenuti dell’immagine.

La scoperta dell’importanza del “come” (e non solo del “che cosa”) delle immagini è legato a un bel ricordo d’infanzia, quando Riccardo Falcinelli – sotto la guida della madre – esperisce, per approssimazioni successive, la distanza giusta a cui guardare le Ninfee di Monet…

Qual è la distanza “giusta”? E’ il punto preciso in cui possiamo cogliere allo stesso tempo il motivo raffigurato (il che cosa) e le pennellate tipiche dell’impressionismo (il come).

Secondo Falcinelli l’attualità degli impressionisti sta nella rappresentazione del meccanismo che presiede alla percezione e comprensione delle immagini, e che incrocia riconoscimento del che cosa (supportato dalla memoria) e coglimento del come, degli aspetti astratti, formali e compositivi, che influenzano il modo in cui guardiamo (es. con un rapido colpo d’occhio d’insieme o con la lenta e meticolosa esplorazione di una mappa) ci permettono di percepire il ritmo dell’immagine come se fosse un brano musicale.

Il parallelismo fra qualità formali dell’immagine e sua musicalità è caro all’autore e molto efficace.

A chi si occupa professionalmente di immagini e layout, agli appassionati di arte e fotografia, ma anche a chi subisce più passivamente il flusso di immagini in cui viviamo immersi, il libro di Falcinelli fornisce le chiavi per indagare i meccanismi formali con cui le immagini influenzano la nostra percezione, comprensione, elaborazione e azione.

Un aspetto fondamentale che Falcinelli sottolinea è la determinatezza storica, socio-culturale e tecnologica di tali meccanismi, che non sono “naturali” e sempiterni, ma fortemente legati a un contesto spazio-temporale, oltre a essere supportati dalle nostre predisposizioni fisiologiche. L’autore si dedica in particolare alla meccanica di funzionamento delle immagini moderne e contemporanee.

Per esempio, già la delimitazione dello spazio dell’immagine e la vittoria del rettangolo sulle altre possibili forme di delimitazione hanno una storia precisa, che inizia a metà del XV secolo con l’architetto Leon Battista Alberti, che definisce il dipinto una finestra sulla realtà.

Dalle pitture rupestri ai cicli di affreschi medioevali, in precedenza le raffigurazioni non erano concentrate entro un limite. Lo spazio pittorico delimitato si afferma nel contesto della cultura scientifica a partire dal secondo Quattrocento, con l’ideazione della prospettiva, la scoperta della camera oscura e poi con l’invenzione della fotografia e l’affermarsi della ferrovia. Che cosa lega questi ritrovati alla pittura? Secondo Falcinelli si tratta di invenzioni che spingono gli artisti a vedere le rappresentazioni come citazioni fuori dal contesto di frammenti delle realtà, che – in quanto tali – mantengono vivo il dialogo con il tutto di cui sono parte e che necessitano della delimitazione, della cornice, per concentrare lo sguardo dell’osservatore sul frammento che la rappresentazione raggela in un determinato istante.

In principio, la delimitazione poteva assumere numerose forme, ma poi a partire dal XVI secolo – con la nascita dell’industria culturale del commercio di pitture su tela e con la diffusione della stampa – il rettangolo vince su tutte le altre forme per motivi produttivi e di facilità di scambio del quadro come nuovo oggetto sociale.

La spinta alla standardizzazione dei processi produttivi delle tele impone sul mercato i rettangoli con proporzioni di 4:3, che anche il cinema riprende, finché l’esigenza di ospitare la colonna sonora non scatenerà i processi evolutivi che sfoceranno nell’affermazione del formato Cinemascope. Il lungo dialogo con il rettangolo carica progressivamente questa forma di valenze simboliche: è così che al formato verticale siamo abituati ad associare temi legati al ritratto, alla volizione, all’universo maschile, mentre al formato orizzontale temi legati al paesaggio, alla conquista, al possesso, all’universo femminile.

In sintesi, forma e formato dell’immagine non sono caratteristiche neutre, ma rappresentazione di una visione del mondo entro la cui linea evolutiva ci collochiamo ancora oggi.

La cornice, tuttavia, non è solo la linea di demarcazione dell’immagine, ma anche la cornice fisica esterna, nonché la cornice o la sequenza di cornici che l’artista raffigura nell’opera.

Assieme alla didascalia e allo spazio bianco attorno, la cornice fisica esterna contribuiscono a orientare la percezione, suggerendo che cosa guardare e come guardarlo, e a mediare la relazione fra l’immagine e ciò che le sta intorno.

All’interno dell’immagine la cornice può essere un accorgimento per raddoppiare lo sguardo (es. nel caso dello specchio), per aprire verso una scena secondaria che dialoga con la principale oppure per suggerire, grazie a una sequenza di cornici, l’ordine di esplorazione visiva dell’opera.

In che modo le immagini attirano la nostra attenzione sul nocciolo della rappresentazione?

Il primo stratagemma analizzato da Falcinelli è la centratura del soggetto, che si afferma con l’invenzione della prospettiva e della camera oscura, e che lo raggela nella precaria posizione perfetta strappata al caos del divenire. Per cogliere le relazioni ottiche fra gli elementi rappresentati in prospettiva è però necessario che il punto di osservazione coincida il più possibile con quello di realizzazione e che l’immagine sia guardata con un occhio solo. Si tratta di un tipo di visione non solo poco naturale, che – in un’epoca di fascinazione per le scoperte scientifiche – mira a mettere in scena il funzionamento del nostro occhio, ma anche politicamente connotato: la visione ideale è riservata agli “spettatori di riguardo” che, nella moltitudine, possono aspirare ai posti d’onore.

Quando il caos del divenire spazza via l’istante sospeso di perfezione della prospettiva centrale, gli artisti ricorrono ad altri meccanismi per guidarci lungo il percorso di fruizione dell’immagine (che in Occidente prevede di norma punto di ingresso, iter di elaborazione e punto di uscita, incentrati su un nucleo visuale forte), suggerire la relazione fra gli elementi rappresentati e supportarci nel processo di donazione di senso di ciò che vediamo. Gli stratagemmi analizzati dall’autore sono vari tipi di puntatori (es. viottoli, panneggi, mani, braccia, sguardo, coltelli, pistole, ecc.), le quinte laterali (mutuate dal teatro Cinquecentesco), i repoussoir (elementi laterali che ci respingono come palline del flipper per lanciarci verso il punto di ingresso dell’immagine) e il fulcro.

Affine al crescendo musicale, il fulcro ci fa individuare l’elemento principale nelle immagini caotiche che nella seconda metà dell’Ottocento riflettono la scioccante esperienza delle prime folle metropolitane. Diversamente dalle immagini prospettiche, esse non impongono più il punto di vista centrale all’osservatore: in un contesto di perdita di centro, in cui le persone sono risucchiate, non solo fisicamente, da vortici fluidi e incontrollabili, le immagini sono concepite per poter essere comprese da qualsiasi angolatura e in breve tempo… come le pubblicità attuali.

Uno dei capitoli più rilevanti per comprendere il potere del “come” è quello che Falcinelli dedica ai temi della composizione dell’immagine e dello sguardo d’insieme su di essa.

In passato la disposizione degli elementi all’interno dell’opera era guidata da figure geometriche di base, connotate da significati simbolici (es. il cerchio o il triangolo).

A cavallo fra il XVI e il XVII secolo gli artisti, come Nicolas Poussin, iniziano ad affrancarsi dalla committenza, a decidere in modo autonomo il tema del dipinto e a elaborare meccanismi efficaci per rendere la storia comprensibile, coinvolgente ed economicamente spendibile.

La composizione, ovvero la rappresentazione del “perché” mediante la disposizione sensata degli elementi, è figlia del nuovo ruolo dell’artista, ma anche della riduzione dei dipinti a un formato “portatile”, il cui contenuto è abbracciabile a colpo d’occhio.

Esempio tipico di composizioni sono le nature morte: se mettiamo in relazione gli schizzi preparatori, spesso numerosissimi (e che presuppongono la diffusione della carta), con l’opera finale, quest’ultima sta ai bozzetti come una costellazione sta alla fantasmagoria del cielo stellato. Come sottolinea Falcinelli, le nature morte “parlano del desiderio che la vita abbia un senso”, che sia “emendata da ciò che stona”.

Il riferimento musicale non è casuale. Nelle composizioni l’equilibrio carico di senso non è tanto fra oggetti reali (“che cosa”), quanto fra elementi caratterizzati per forma, dimensione, colore, luminosità, ecc. (“come”): per raccontare efficacemente la loro storia devono suonare bene, avere il ritmo giusto. Non a caso nelle botteghe si era soliti associare note e durate agli elementi della composizione per poi solfeggiarla o cantarla e e verificare se funzionava.

L’affresco chiede di essere esplorato come una mappa; le immagini prospettiche vanno osservate di fronte, a una data distanza e altezza; le immagini imperniate sul fulcro possono essere lette da più angolature: le composizioni sollecitano all’osservatore uno sguardo d’insieme. A ogni meccanismo di rappresentazione fa da pendant un tipo di sguardo peculiare.

Quali sono le direttrici principali lungo cui corrono e si rincorrono elementi dell’immagine e sguardo?

L’alto e il basso: il problema del sotto e del sopra di un’opera nasce con la sua portabilità. Nella contemporaneità, alterare o sospendere le qualità gravitazionali di elementi figurativi o astratti che ci sono famigliari apre l’immagine alla flessibilità interpretativa e al contributo attivo degli osservatori nel processo di donazione di senso, soggettivo e collettivo.

Anche la destra e la sinistra sono spazi orientati, sia per cultura (es. il verso di lettura occidentale da sinistra a destra) sia per predisposizione fisiologica (es. pare che l’occhio destro sia comunque più attivo nella scansione delle scene). Il verso sinistro dell’immagine è associabile a spostamento, lontananza, negatività, ostacolo, pericolo, regresso, fuga, ma anche al prima e alla maggiore importanza dell’elemento. Il verso destro è associabile a casa, appartenenza, positività, progresso, ma anche al dopo e alla minore importanza dell’elemento.

Le diagonali si affermano nel Cinquecento e, nell’analisi di Falcinelli, rappresentano la perdita di centro e di punti di riferimenti stabili, anche politico-sociali, tipica dell’epoca. La diagonale mette in scena il divenire, creando tensione e inquietudine, ma – come in Edward Hopper – possono suscitare nell’osservatore sensazioni di perturbante malinconia.

Oltre al verso, anche l’altezza dell’orizzonte contribuisce a definire la temperatura della narrazione. A prescindere dalla Regola dei Terzi stabilita nell’Ottocento da John Thomas Smith (che suggerisce di collocare il soggetto in uno dei quattro punti di intersezione delle linee orizzontali con quelle verticali dell’immagine), la posizione dell’altezza dell’orizzonte può rappresentare efficacemente messaggi politici e religiosi (es. la visione a volo d’uccello tipica delle miniature mediorientali rimanda allo sguardo della divinità) oppure socio-culturali (es. l’orizzonte ribassato che si incontra nel cinema giapponese è tipico di chi osserva una scena seduto sul tatami).

Spesso le immagini occidentali hanno un nucleo visuale forte. Come occupare il restante spazio disponibile? Un approccio è quello di bilanciare il soggetto principale con elementi secondari, con l’intento – per esempio – di attenuarlo, di creare profondità o di creare una composizione armonica che – come suggerisce Falcinelli – nel raggiungimento del punto di equilibrio “esprime il desiderio di mettere a posto le cose”, di mettere in scena uno “spazio desiderato in una data maniera”. Nell’Ottocento, la scoperta dell’arte giapponese fa conoscere agli Europei il vuoto come alternativa al bilanciamento (e ai Giapponesi il pieno europeo). Lo spazio bianco mette in scena il confronto con il disequilibrio, con l’incessante movimento dell’esistenza. Il vuoto invita l’osservatore a completare attivamente la mancanza e a trovare, nell’atto dell’osservare, un temporaneo e personale punto di equilibrio e di quiete.

A partire dalla seconda metà del XIX secolo le immagini hanno iniziato a fare i conti con la loro riproducibilità e trasmissibilità.

Mentre alla fotografia sono consustanziali la riproduzione (ogni foto è vera solo in quanto riproduzione) e l’ubiquità, per le opere che nascono analogiche la riproducibilità apre a una doppia vita.

L’opera vera continua a essere quella analogica, connotata anche da caratteristiche fisiche: dimensione, peso, tecnica, cornice (per convenzione tagliata nelle riproduzioni), contesto, ecc. Nel contempo vive una seconda vita in quanto riproduzione, assumendone le specificità: materiale e formato (es. i formati tipici delle cartoline stampate o dei file immagine pubblicati sui social media), ubiquità (potenzialità di essere riprodotta su qualsiasi oggetto e di apparire in ogni contesto), predisposizione a tagli e decontestualizzazione – che rientrano nelle tecniche di montaggio Novecentesche e che possono produrre come risultato un’immagine derivata che racconta una storia completamente diversa da quella originale.

Ragionando su riproducibilità e trasmissibilità Falcinelli propone alcune riflessioni di grande attualità.

La riproducibilità non va vista solo in termini negativi (di perdita dell’aura, come teorizzato da Walter Benjamin), ma anche come meccanismo che ha dato origine al mito dell’arte – estendendo a ogni manufatto “bello” la percezione della sua funzione meramente estetica (es. un’icona del XIII secolo, che oggi percepiamo come “bella”, non nasce con finalità estetiche, ma di supporto al culto, ecc.) – e che alimenta il desiderio di molte persone di incontrare l’opera vera, cioè quella fisica.

Riproduzione e trasmissione stanno favorendo la nascita della categoria di “iconogenia”, termine coniato da Giovanni Anceschi e Paola Pallottino e ripreso da Falcinelli. Iconogeniche sono le immagini che risultano accattivanti in riproduzione (es. in cartolina o come immagine da postare online), accomunate dalla caratteristica di rendere bene a colpo d’occhio (es. i Girasoli di Vincent van Gogh sono più iconogenici di un ciclo di affreschi che, se riprodotti per intero non permettono di vedere sufficientemente bene gli elementi rappresentati, e se tagliati decontestualizzano gli elementi e li portano a narrare una storia diversa da quella originale). Anche in considerazione delle applicazioni di intelligenza artificiale che sottostanno a motori di ricerca e piattaforme web, la domanda aperta che Falcinelli si pone è molto rilevante ai fini del futuro della trasmissione della nostra storia culturale: saranno nettamente favorite le opere iconogeniche, perché più facilmente spendibili?

Dato che la riproduzione equalizza alcune caratteristiche delle immagini (es. materiale e formato) risulta molto più disinvolto l’accostamento fra reperti iconografici provenienti da contesti spazio-temporali e socio-politico-culturali eterogenei. Come traspare quotidianamente dai social media, la tendenza è di esprimere la propria vita interiore e di rappresentare la propria visione del mondo mediante personali costellazioni di immagini, che – dopo aver citato fuori dal loro contesto originario singole immagini o loro tagli – le fissano in una composizione temporanea dotata di senso, cioè in grado di raccontare una storia. Tuttavia, se la comprensione del “che cosa”, del “come” e del “perché” dell’originale è debole (poiché o è pregressa oppure la riproduzione non ne favorisce l’acquisizione), il valore di questo tipo di costellazioni potrà essere non solo soggettivo e di godimento estetico? Falcinelli porta a esempio lo storico dell’arte Aby Warburg come campione nella creazione di costellazioni dotate di valore ermeneutico, ma potremmo ricordare lo stesso Benjamin de “I «passages» di Parigi”: in entrambi i casi l’abilità nel decontestualizzare frammenti e nel ricomporli in artefatti generatori di nuova conoscenza passa per una cultura storica, artistica e letteraria raffinatissima.

Ecco, l’invito che potremmo trarre dal bellissimo libro di Falcinelli è di confrontarci con i funzionamento, ma anche con l’interpretazione delle immagini nelle varie epoche, per poter trarre il massimo, in termini ermeneutici, dalle tecnologie di riproduzione e trasmissione di cui disponiamo.

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